Tempo perso

    Cosa rappresenta per me il mio passato? Un tempo perduto o un tempo acquisito? Non credo che il ricordo sia un balsamo con cui cospargere la nostra malinconia quando una contingenza ci opprime o quando scorgiamo i segni del tempo sul nostro corpo; in ogni caso il rimpianto della giovinezza non migliora le nostre condizioni di vita. Solo con l’esperienza riusciamo a comprendere quello che allora ci sarebbe stato utile sapere e che ora ci risulta indifferente. La riflessione sul tempo avviene sempre a posteriori, né può giovare per il futuro perché la vita è un continuo tuffarsi nell’ignoto con l’unica certezza che l’ultimo tuffo sarà fatale.

   Se con la mente ritorno ai miei giorni di scuola li rivivo come un periodo di interminabile attesa in un pubblico ufficio, tra impiegati distratti e negligenti, o meglio in una platea in cui si aspetta impazientemente la fine di uno spettacolo che ci annoia. Avevo fretta di concludere il liceo, perché la mistura di lezioni che replicavano i libri di testo su autori di cui non avevamo letto neanche un rigo, di interrogazioni che si sforzavano di adeguarsi all’innata stupidità della maggior parte degli studenti mi diveniva sempre più intollerabile. Avevo fretta  di frequentare l’Università: speravo che lì avrei potuto approfondire materie che mi interessavano, sperimentare le mie capacità intellettuali, divenire qualcuno (ritenevo ancora che il successo avrebbe ricompensato prima o poi i meritevoli).

Resta da stabilire se la depressione, che adesso non minaccia funzioni vitali (tranquillità, alimentazione, sonno), ma mi accompagna come un’ombra durante tutta la giornata quando penso a quello che dovrei fare per essere una persona “normale”, cerco di intessere i miei rapporti con gli altri, sia una malattia o una costante esistenziale. Dal punto di vista filosofico il depresso è lungimirante e “ogni forma della volontà di vivere è solo il tentativo di coprire e nascondere ciò che si crede di essere” (riporto le parole di Emanuele Severino, un filosofo assai noto anche se spesso contestato). Dati gli assunti della nostra cultura “l’angoscia dell’uomo occidentale è lungimiranza e ogni farmaco (materiale e spirituale) tende a fare del sofferente un essere dalla vista corta”. Sarei tentato di concludere che sentire la vita minacciata dal nulla non è un disturbo della psiche, ma perlomeno una costante della civiltà occidentale

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