Felicità coatta

 

“Il male è una delle esperienze più generali e profonde che si danno nell’avventura” (SERGIO MORAVIA, L’esistenza ferita. Modi di essere, sofferenze, terapie dell’uomo nell’inquietudine del mondo, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 176).Non c’è pertanto da meravigliarsi cerchi di esorcizzarlo affidandosi a ideologie ottimiste e scientistiche dove “il male, insomma, si configurerebbe o come un guasto della macchina-uomo, o come un’anomalia del sistema antropico” ( ID. p. 181 corsivo nel testo). Inconveniente che, naturalmente, gli ingegneri sociali si impegnano a riparare in un futuro più o meno prossimo.

 

Vantarsi di aver inventato la “pillola della felicità” non è il sintomo di una malattia diffusa più profondamente di quanto il sano ottimismo mondano possa immaginarsi?

 

L’utile non giustifica se stesso  rimanda ad altro: il fine da perseguire. Però se questo fine diviene sfocato, se si confonde in un gioco di rinvii, qualsiasi comportamento diventa assurdo.

 

Quale sentimento dovrebbe prevalere nel cristiano? La speranza della ricompensa ultraterrena (anche se immeritata) o il timore del castigo? Se ci basiamo sull’esperienza abituale dovrebbe essere il secondo sentimento ad affermarsi. Infatti , di norma, il più delle volte le speranze rimangono deluse, mentre i timori si avverano quasi sempre. Inoltre l’umiltà dovrebbe in ogni caso indurre il credente a ritenersi immeritevole del premio.

 

Corollario: ma perché dopo la morte dovremmo essere sottoposti a un giudizio? Non siamo stati noi a scegliere la vita, che ci è stata trasmessa come un’eredità senza beneficio d’inventario replicando le tare dei nostri genitori. Quale è il codice con cui saremo giudicati? Le morali mutano nel tempo come le mode. Qualche filosofo ha sostenuto l’impossibilità dell’etica. La psicoanalisi ha affermato che di alcuni atti non siamo responsabili. Se la giustizia umana più che punire si prefigge di rieducare, perché la giustizia divina dovrebbe condannare senza appello?

 

La tecnica costituisce una facilitazione della vita; ma non sempre le facilitazioni si rivelano utili. L’automobile mi dispensa dall’usare le gambe ma non posso lasciarle atrofizzare. La salute mi impone quell’esercizio fisico che macchine sempre più sofisticate mi risparmiano. E se l’intelligenza artificiale dovesse sopravanzarci, dovremmo smettere di usare il cervello?

 

Agli occhi della filosofia tutto diventa problema; agli occhi della mondanità tutto è semplice e scontato.

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