Non scholae sed vitae
Ho scritto numerose poesie in cui si ricordano gli anni della scuola. La mia vena poetica deve essere considerata crepuscolare? Quali sono le differenze d’ispirazione, senza contare i risultati estetici, tra me e Moretti? Che senso ha avuto l’esperienza scolastica nella mia vita? Oggi vedo la scuola di allora come un grande inganno, dove la maggioranza degli insegnanti fingeva di insegnare e la maggioranza degli allievi (io, non so dire se fortunatamente o sfortunatamente, non ero tra quelli) fingeva di apprendere. Il risultato di questa menzogna è stato la scarsa preparazione intellettuale: siamo usciti dal liceo con la lettura di cento versi d’Omero, qualche capitolo di Erodoto e duecento versi di Euripide, mentre la generazione che ci ha preceduto leggeva svariati libri dei classici.
Credo che tutti siano legati ai loro trascorsi scolastici, in particolare ai tempi del liceo, perché proprio in quegli anni avviene l’ingresso nel mondo della vita. L’esame di stato presenta (o presentava?) le caratteristiche d’un rito d’iniziazione: attraverso di esso si entra nel mondo degli adulti. Ma proprio in quel momento subentra il disincanto perché quel mondo non corrisponde alle promesse che il sistema educativo (scuola, famiglia e prete) ci aveva elargito. A quel punto come si reagisce? I più cominciano a mentire sistematicamente a se stessi: si iscrivono a una facoltà che assicuri una rilevante posizione sociale (probabilmente oggi come oggi questo non è più possibile dal momento che l’università di massa può assicurare solo la disoccupazione), cercano l’impiego più remunerativo, si sposano, riproducono la famiglia, la stessa istituzione che un tempo pareva tanto stretta, mettono al mondo dei figli, si impegnano a educarli nonostante abbiano sperimentato la menzogna dell’educazione. Se dopo molti anni rivedono un compagno di scuola dapprima stentano a riconoscerlo, poi cominciano a ricordare “i bei tempi” quando erano baciati dalla giovinezza, un’età che si sa apprezzare solo dopo averla perduta.
Io non faccio parte di quel coro. Lo
testimonia il mio anticonformismo, che, sul posto di lavoro mi ha fatto spesso
scontrare con il pressappochismo della pubblica amministrazione, dove i
dirigenti si comportano come uscieri e gli uscieri come dirigenti. Lo
testimonia la mia solitudine che perdura anche quando, come adesso, sembra che
l’ ansietà m’abbia concesso una tregua. Lo sperimento snella vita quotidiana.
dove non riesco ad adeguarmi alla mediocrità
che si traveste da astuzia.
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