Leopardi e la contraddizione

 

“A tener dietro con diligenza ai ragionamenti del Breme ci si scopre una contraddizione nascosta, ma realissima e fondamentale così del suo sistema come del romantico”[1]. Il termine “contraddizione” compare qui per la prima volta nello Zibaldone con lo scopo di confutare le tesi del Di Breme. E’ interessante notare come già in questo passo la presenza di una contraddizione comporti la non validità di una teoria e come essa venga ricercata nel cuore di un “sistema”, la cui importanza nell’ambito della riflessione filosofica viene ribadita in vari punti dello Zibaldone e in particolar modo a p. 946 . Per un lungo periodo Leopardi tenterà di dimostrare che nella natura non si possono rinvenire contraddizioni.

   A p. 40 si afferma che “una delle grandi prove dell’immortalità dell’anima è l’infelicità dell’uomo paragonato alle bestie… perché ripugna alle leggi che si osservano seguite costantemente in tutte le opere della natura,  che vi sia un animale, e questo il più perfetto di tutti, anzi il padrone di tutti gli altri e di questo intiero globo, il quale racchiuda in se una sostanziale infelicità, e una specie di contraddizione colla sua esistenza al  compimento della quale non è dubbio che si richieda la felicità proporzionata all’essere di quella tale sostanza (che per l’uomo è impossibile di conseguire) e una contraddizione formale col desiderio di esistere ingenito in lui come in tutti gli animali…”[2]. Qui “si afferma la vita futura per salvare il principio di non contraddizione… per non dover affermare che la natura è,  in quanto tale, qualcosa di contraddittorio”[3]. Meditando sul timore per la vita che segue immediatamente il concepimento del suicidio si insiste sull’insanabile distacco dell’uomo dalla natura: “E vidi come sia vero ed evidente che (se non vogliamo supporre la natura tanto savia e coerente in tutto il resto… affatto pazza e contraddittoria nella sua principale opera) l’uomo non doveva per nessun conto accorgersi della sua assoluta e necessaria infelicità in questa vita, ma solamente delle accidentali (come i fanciulli e le bestie): e l’essersene accorto è contro natura, ripugna ai suoi principi costituenti comuni anche a tutti gli altri esseri (come dire l’amor della vita), e turba l’ordine delle cose (poiché spinge infatti al suicidio la cosa più contro natura che si possa immaginare)[4]

   L’amor proprio regola la nostra esistenza  a tal punto che non riusciamo a comprendere “come  una cosa che è, non ami essere, parendo che  il contrario di questo amore, sarebbe come una contraddizione coll’esistenza”[5]. In questo caso il principio di non contraddizione serve a  dimostrare che l’amor proprio costituisce “una conseguenza dell’esistere”.

   La natura ha creato l’uomo ignorante dal momento che la felicità consiste nell’ignoranza del vero. Altrimenti perché avrebbe tenuto celato il  vero per secoli e secoli? “Non sarebbe stato un vizio organico, fondamentale, radicale, e una contraddizione nel suo sistema?”[6] La contraddizione è risolta perché la nostra maniera di considerare l’ordine delle cose  è opposta a quella della natura: “Noi in un modo con cui l’ignoranza è incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile  la scienza”[7].  La colpa dell’infelicità è ancora da attribuirsi all’uomo che ha sovvertito i principi della natura.

   L’antitesi tra ragione e natura pervade interamente un pensiero del 20 novembre 1820. “Una grandissima e universalissima fonte di errori, controsensi, oscurità, sviste, contraddizioni ec. negli scrittori e filosofi tanto antichi che modernissimi , è il non aver considerata, e definita, e posta nelle basi del sistema dell’uomo, la nemicizia scambievole della ragione e della natura”[8]. Questo principio è in grado di risolvere le secolari aporie della filosofia perché “confondendo la ragione con la natura, il vero con il bello, i progressi dell’intelligenza coi progressi della felicità e col perfezionamento dell’uomo, le nozioni e la natura dell’utile, il fine o scopo dell’intelligenza (ch’è la verità) col fine e scopo vero dell’uomo e della natura sua ec. non si viene mai a capo di deciferare il mistero dell’uomo, e di accordare le infinite contraddizioni che par che s’incontrino in questa principalissima parte del sistema universale, cioè in quella che riguarda la nostra specie”[9]. Il prevalere della ragione è indizio della decadenza vitale e causa dell’infelicità. Si cade in contraddizione confondendo il fine della ragione e il fine della natura. La verità non è lo scopo della natura.

   Rendersi conto che non esiste una verità assoluta “è un’osservazione vastissima che distrugge infiniti sistemi filosofici ec.; e appiana e toglie infinite contraddizioni e difficoltà  nella gran considerazione delle cose, massimamente generale, e appartenente ai loro rapporti”[10]

   “La filosofia e la natura de’ tempi e della vita presente s’ha per capital nemica della Religione, ed è vero. Contuttociò se l’uomo doveva essere filosofo, far della ragione quell’uso che ora ne fa, conoscere tutto quello che ora conosce, e generalmente s’egli doveva vivere come ora vive, e se i tempi dovevano essere quali ora sono, o il sistema della natura e delle cose è totalmente assurdo e contraddittorio, o bisogna necessariamente ammettere una Religione”[11]. Si tratta di una dimostrazione per assurdo ripresa poche righe più avanti: “Perché se l’uomo doveva essere inevitabilmente  infelice, come ora accade, ne segue che al primo nell’ordine degli enti, è meglio non essere che essere, ne segue che l’uomo non solo non deve amare né conservare la sua esistenza, ma distruggerla…ne segue che la vita ripugna alla vita , l’esistenza  all’esistenza, giacchè  l’uomo non verrebbe ad esistere se non per cercare di non esistere, quando conoscesse il suo vero destino. La qual cosa è un’assurdità e una contraddizione sostanziale e capitale nel sistema della natura”[12]. La condizione dell’uomo continua ad essere quella delineata nella nota di p. 40, vale a dire  dell’ente privilegiato   in seno a una natura che non commette errori. La presente condizione umana non è quella originariamente stabilita, ma la conseguenza di un evento non prevedibile di cui è responsabile l’uomo stesso. “Basta che il male non sia colpa della natura, non derivi  necessariamente dall’ordine delle cose, non sia inerente al sistema universale; ma sia come un’eccezione, un inconveniente, un errore accidentale nel corso e nell’uso di detto sistema”[13]. In questa maniera il sistema (si noti come questo termine finora venga opposto a “contraddizione” e si ripeta per ben quattro volte nel passo del 29 novembre-1 dicembre 1820) sfugge alla contraddizione.

   La stessa regola vale anche nel campo della politica: qualsiasi governo che si allontana dalla natura  è corrotto. I pochi autentici filosofi  sono consci “della necessaria imperfezione, infelicità, contraddizione e sconvenienza di tutto quello che 1.° mancava di natura sola norma vera e invariabile d’ogni istituzione umana ;  2.° non corrispondeva all’essenza e alla ragione della società, la quale richiede la monarchia assoluta”[14].

   La società primitiva “camminava alla buona, e così alla buona conseguiva l’intento della natura, e la sua destinazione. Né per questo era necessario opporsi alla natura , e introdurre una contraddizione tra il fatto e il diritto, una contraddizione nell’ordine delle cose umane, introducendo qualità contrarie alle qualità ingenite ed essenziali dell’uomo; vale a dire la soggezione e disuguaglianza contrarie  alla libertà ed uguaglianza naturale”[15].

   La civiltà si regge su un ossimoro permanente. “E vedete da questo, come la civiltà (secondo il costume di tutte le false teorie ) contraddica a se stessa anche in teorica, ed oltracciò non possa sussistere senza circostanze che ripugnano alla sua natura, e sono assolutamente incivili, anzi barbare in tutta la verità e la forza del termine”[16]. La pagina si conclude con un altro interrogativo  volto a difendere l’operato della natura. “Torno a domandare se tali contraddizioni ed assurdi è presumibile che fossero ordinati e disposti primordialmente dalla natura, intorno alla perfezione, vale a dire al ben ESSERE della principal creatura terrena, cioè l’uomo”[17].

   Leopardi vuol sostenere che la natura ha assegnato alla giovinezza la maggior felicità conseguibile dall’uomo, e anche qui ricorre a una dimostrazione per assurdo: questa età non può essere la vecchiaia  poiché “Questa sarebbe una contraddizione, che la felicità, cioè la perfezione dell’essere, dovesse naturalmente trovarsi nel tempo della decadenza e quasi corruzione  di detto essere”[18].

   La condizione dell’uomo è paradossale se non si riconosce  che egli non avrebbe dovuto allontanarsi  dal suo stato  originario, dove regna la perfezione di tutte le altre cose. “Quanto più egli s’avanza verso la sognata perfezione del suo essere tanto meno si trova in armonia colle cose quali esse sono , e gli conviene  , raddoppiando proporzionalmente l’arte, e vincendo sempre maggiori difficoltà, cambiar le cose, e farle essere diversamente.  Quanto più l’uomo è perfetto, cioè in armonia col sistema delle cose esistenti, e di se stesso, tanto più gli è difficile e faticoso il vivere, e l’esser felice. Che strana assurdità sarebbe questa nella natura? Che strana contraddizione con tutte le altre anche menome parti del suo sistema?”[19].

   Tornando a parlare di società Leopardi si domanda: “Che strana contraddizione è dunque questa che nello stato di società i vantaggi naturali e acquisiti sieno quasi assolutamente incompatibili colla bontà de’ costumi?”[20]. La risposta è lui stesso a darla poche righe più sotto.  “Che vuol dir tutto ciò? Che lo stato sociale è contraddittorio colla natura, e con se stesso”[21] dal momento che non può conservarsi senza la virtù e la morale ed esse non possono sussistere disgiunte dai vantaggi individuali. Concluso  questo pensiero, Leopardi , in fine di pagina, aggiunge: “Il sopraddetto si può se non altro , e con molto maggior forza applicare a dimostrare le ingenite ed essenziali contraddizioni che rinchiude uno stato di civiltà come il presente”[22]. Dunque lo “stato sociale” non può essere identificato con lo stato naturale.

   La pagina successiva inizia in maniera categorica: “Tutto nella natura è armonia, ma soprattutto niente in essa è contraddizione”[23] per poi proseguire “Non è possibile che, massime in un medesimo individuo, in un medesimo genere di esseri, e degli esseri più elevati nell’ordine naturale, siccom’è l’uomo [l’uomo conserva un ruolo preminente sugli esseri come a p. 40 dello Zib.] la perfezione di una parte principale e importantissima di esso, voluta e ordinata dalla natura , noccia a quella di un’altra parte similmente principalissima. Ora se quella che noi chiamiamo perfezione del nostro spirito, se la civiltà fosse stata voluta e ordinata dalla natura , e se ella fosse veramente la nostra perfezione, allora la contraddizione assurda che ho detto, si verificherebbe; giacchè è incontrastabile che questa pretesa perfezione dell’animo nuoce al corpo”[24]. Più oltre si ribadisce “Se dunque l’infinito sviluppo della ragione costituisce la perfezione propria dell’uomo , la natura, torno a dire, è in contraddizione, perché la perfezione di una parte nuoce a quella dell’altra…”[25]. La prima asserzione è perentoria (la natura non ammette contraddizione). D’altra parte Leopardi deve riconoscere che la condizione dell’uomo (almeno quella dell’uomo moderno) è paradossale. Aspira alla felicità e non può raggiungerla in alcun modo. Si trova irretito nelle maglie di una società stretta; crede di procedere verso la perfezione e non sa trovare uno scopo della sua esistenza. Per evitare queste incongruenze non rimane che smentire la ragione. L’uomo era destinato a rimanere ignorante; l’attuale grado di civiltà non era previsto dagli ordinamenti naturali. Queste considerazioni derivano direttamente dall’antitesi natura-ragione che caratterizza lo Zibaldone fin dalle primissime pagine. La contraddizione non riguarda la natura, ma gli effetti perversi d’uno sviluppo imprevedibile della ragione.

   La religione ci mostra che alcuni misteri dell’essenza divina (quali la Trinità e l’Eucarestia) “si oppongono fino al principio detto di contraddizione, che par l’ultimo principio del raziocinio”[26]. Ciò non dimostra che siano falsi,  ma che il nostro modo di ragionare “non è vero se non relativamente, cioè dentro particolare ordine di cose”[27].  In questa maniera “viene per la prima volta negata anche quella forma ridotta del principio di non contraddizione, in base alla cui innegabilità Leopardi aveva mostrato, sin dal ‘pensiero’ di pagina 56, come può accadere che il rifiuto dell’esistenza esista nell’uomo”[28]. Finora Leopardi aveva esaltato la natura a scapito della ragione; adesso anche la natura viene ricondotta alla relatività di qualsiasi essere.

Nel corso di un lungo pensiero del  5-6 ottobre 1821, in cui vuole dimostrare che le grandi scoperte in qualsiasi campo della scienza sono dovute ai popoli meridionali, mentre dai tedeschi derivano soltanto fumose astrazioni, Leopardi afferma  che l’esattezza, in cui i tedeschi si distinguono,  va bene per esaminare le parti, non per comprendere il tutto. Però “Quando delle parti le più minutamente ma separatamente considerate si vuol comporre un gran tutto, si trovano mille difficoltà, contraddizioni, ripugnanze, assurdità, dissonanze e disarmonie; segno certo ed effetto necessario della mancanza del colpo d’occhio che scuopre in un tratto le cose contenute in un vasto campo, e i loro scambievoli rapporti"[29]. Questo inconveniente rivela l’impotenza della ragione. “Da tutto ciò deducete 1. L’impotenza e la contraddiz. che involve in se, ed introduce nell’uomo, e nell’ordine delle cose umane, la ragione, la quale per far grandi effetti e decisi progressi ha bisogno di quelle stesse disposizioni naturali ch’ella distrugge o n’è distrutta, l’immagin. e il sentimento”[30]. Ancora una volta viene ribadita “la gran superiorità della natura sulla ragione , e su tutto ciò che l’uomo si proccura , si fabbrica, si perfeziona da se stesso e col tempo”[31].

   Escludere la materia dall’essenza della divinità significherebbe togliergli una perfezione dell’esistenza. Dio deve comprendere tutte le possibili modalità d’esistere, quindi anche il modo d’essere della materia che, tra l’altro, è l’unico ad appartenere a tutto il creato. “Le contraddizioni che noi vediamo fra questi modi [riguardo agli attributi della divinità], le vediamo noi, ma, come spesso ho mostrato, non sono assolute, ma relative, e niente può impedire a Dio di esistere tutt’insieme in due o più modi che a noi paiono contrarii ec. ec. ec.”[32].

   Leopardi tiene a precisare che le sue teorie trovano riscontri anche in concezioni del passato. “Gli antichi pensatori , S. Paolo, i padri, e prima anche del Cristianesimo, i filosofi gentili, s’eran ben accorti di una contraddizione fra le qualità dell’animo umano, di una lotta e nemicizia evidente fra la ragione e la natura , di un impedimento essenziale ed ingenito nell’uomo (qual era divenuto) alla felicità e p. cons. di una degenerazione e corruzione dell’uomo, conosciuta e praticata anche nelle antichissime mitologie”[33]. Sbagliavano però nel credere corrotta e corruttrice la natura, perché tale è la ragione. “Laddove essi credevano sostanzialmente imperfetta cioè composta di elementi contraddittorii l’opera di Dio, io credo tale l’opera dell’uomo, e a causa della sola opera dell’uomo, credo non sostanzialmente, ma solo accidentalmente imperfetta l’opera di Dio, e composta non di elementi contraddittorii, ma di qualità acquisite ripugnanti alle naturali, o di qualità naturali corrotte, ripugnanti fra loro solo in quanto corrotte. Insomma laddove essi vedevano un’immensa imperfezione nel sistema e nell’ordine primitivo dell’uomo, io la vedo in questo sistema, in quanto e perché s’è allontanato dal primitivo…”[34]. In questo caso, sarebbe l’uomo stesso il responsabile del proprio male, e la natura resterebbe esente da colpe.

   Dello stesso tono è la conclusione di un pensiero dell’8 gennaio 1822: “Insomma i bisogni che l’uomo si è fabbricati, anche i più semplici, rurali, ed universali, e propri anche della gente volgare e men guasta, si contraddicono, si nocciono scambievolmente … E pure è certo che più facilmente potremo annoverar  le arene del mar  di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata all’uso sì dell’uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec. “[35].  Il passo viene esplicitamente richiamato a p. 2389: “Alla p. 2338. Ho detto delle contraddizioni naturali che occorrono fra quegli oggetti che il presente stato dell’uomo gli rende necessarii  anche nell’agricoltura ec.”[36]. In una nota del 3 giugno 1822 si parla di arte e mestieri “che da gran tempo si stimano e sono veramente necessarii all’uso del viver civile… e che intanto nocciono alla salute e al viver fisico, e in oltre all’animo di chi gli esercita”[37].

   In questo periodo le critiche del Leopardi si appuntano sulla società. L’uomo vivrebbe felice se potesse conservare le illusioni della fanciullezza che vengono immancabilmente deluse dal consorzio sociale. “Dunque la causa originaria e continua della infelicità umana è la società. L’uomo, secondo la natura sarebbe vissuto isolato e fuor della società. Dunque se l’uomo vivesse secondo natura, sarebbe felice”[38].            

       L’amore per la vita è una conseguenza dell’amor proprio dal momento che “sarebbe una contraddizione quasi impossibile a concepirsi, che l’esistenza non fosse amata dall’esistente; e quindi che in certo modo l’esistenza fosse odiata dall’esistenza…”[39]. Tuttavia non manca chi si seppellisce in un monastero in virtù di un siffatto ragionamento: “ma poiché non ho potuto a meno di nascere, e la mia legge mi comanda di fuggir la vita, e nel tempo stesso mi vieta di terminarla, ponendo la morte volontaria fra gli altri peccati per cui la vita è pericolosa, resta che (fra tante contraddizioni) io scelga il partito ch’è in poter mio, e l’unico degno del savio, cioè schivare quanto io posso la vita, contraddire e rendere vana quanto posso la nascita mia, insomma esistendo  annullare quanto è possibile l’esistenza”[40]. Tutto questo avviene perché “assolutamente nell’idea caratteristica del Cristianesimo, l’esistenza ripugna e contraddice per sua natura a se stessa”[41]. Da questo brano sembrerebbe che il Cristianesimo venga rifiutato in quanto negazione della vita.

   In una lunga riflessione, stesa tra il 25-30 ottobre 1823, Leopardi torna a denunciare i gravi inconvenienti di una società stretta che, d’altra parte, non era stata prevista dalla natura. In queste pagine affiora sovente, anche a livello lessicale, il problema della “contraddizione”. L’uomo, al contrario di quanto si pensa, è il meno sociale tra gli esseri viventi perché ha più amor proprio e, posto in stretti rapporti con i suoi simili, cerca sempre di prevaricare, trarre vantaggi personali a spese degli altri. Ora può definirsi tollerabile una società in cui gli individui “non nocciano gli uni agli altri, o se nocciono , ciò sia accidentalmente”[42] . Senza questo principio “l’idea della società è contraddittoria  ne’ termini”[43]. La p. 3784 si concentra parossisticamente sul tema della “contraddizione”. La natura non può aver voluto che una sua specie si infelicitasse  da se stessa e fosse causa della sua stessa imperfezione. “Queste, essendo contraddizioni evidentissime e formalissime, sono escluse dal ragionamento assoluto; il principio stesso della nostra ragione, o si riconosce p. falso, e non possiamo più discorrere, o impedisce di supporre queste contraddizioni nella natura; le quali però si avrebbero necessariamente luogo s’ella  avesse voluto in qualunque specie una società stretta… Dal che si deduce efficacissimamente che il supporre nella natura l’intenzione di una società stretta in qualsivoglia specie, e massime nell’umana (che da una parte, essendo la prima , doveva essere la più felice e perfetta[44], dall’altra , in una società  stretta, è necessariam. più di tutte sottoposta ai detti inconvenienti) ripugna dirittam. al principio stesso della ragione”. Pertanto l’odio nei confronti degli altri non deriva dalla natura, ma dall’amor proprio. “Il quale amor proprio è un bene sommo e necessario, e in ogni modo nasce p. se medesimo dall’esistenza sentita, e sarebbe contraddizione un essere che sentisse di essere e non si amasse, come altrove ho dichiarato”[45]. La natura viene scagionata da possibili accuse affermando che essa non aveva stabilito  per l’uomo una società stretta. Riassumendo le sue considerazioni Leopardi ribadisce che “Dalle quali cose tutte, parlando in somma, si raccoglie che il dir società stretta, massime umana , è contraddizione, non solo rispetto alla natura ec. ma assolutamente, rispetto a se stessa, ne’ termini , e rispetto alla nozione di queste parole”[46]. Per questo motivo non si è mai trovata, e non si troverà mai, la forma di società perfetta “poiché la idea medesima d’esse forme è contraddittoria per natura”[47]. Nella conclusione del passo Leopardi insiste sulla innocenza della natura[48] e sull’antinomia della società[49]. Più avanti la società viene incolpata della comparsa del suicidio , negazione estrema del principio cardine della vita. “Il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi fondamentali dell’esistenza, ai principii, alle basi dell’essere di tutte le cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se non dalla società?[50]. La guerra, l’omicidio volontario e il suicidio sono contrari alla natura in quanto ogni individuo e ogni specie tende alla propria conservazione e alla propria felicità. “E questa legge è necessaria e consentanea p. se stessa, e implicherebbe contraddizione ch’ella non fosse”[51]. Ora avviene il contrario dal momento che “la specie umana in istato di società stretta (e il sì la ragione sì ‘l fatto di tutti i secoli sociali) non  pur serve  ma nuoce alla propria conservaz. E felicità, e serve quasi quanto è in lei alla propria distruzione e infelicità essa medesima: cosa di cui non vi può essere la più contraddittoria in se stessa, e la più ripugnante alla ragione, ordine, principii, natura, non men particolare della specie umana e di ciascuna specie di esseri, che universale e complessiva di tutte le cose, e della esistenza medesima, non che della vita”[52].

   La prospettiva sembra mutare radicalmente in un pensiero dell’11 maggio 1824. “Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra parte la vita non è fatta che per il piacere, poiché non è fatta se non per la felicità, la quale consiste nel piacere, e senza di esso è imperfetta la vita, perché manca del suo fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità, cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura?[53]”. Per la prima volta, nello Zibaldone, viene esplicitamente ammessa la contraddittorietà della natura, finora strenuamente difesa dall’imputazione di colpe nei confronti dell’uomo. S’incrina una visione finalistica della natura, in cui non si ammettevano contraddizioni. Non si tratta ancora di un’affermazione perentoria, ma di una richiesta di spiegazione a non si sa quale interlocutore.

   Circa un mese più tardi le dichiarazioni sono più nette. “Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale (v. il mio Dialogo della Natura e di un Islandese , massime in fine) che dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della nostra ragione”[54]. Lo stesso principio di non contraddizione “pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura”[55]. L’essere non può raggiungere la felicità, né può evitare l’infelicità. “Or l’essere unito all’infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza , è cosa contraria dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a se stesso e suo proprio nemico. Dunque l’essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell’esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di essere infelice, e compresa in lei); cioè nell’essere, ed essere p. necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria”[56]. In base ai principi della ragione la non esistenza è preferibile all’esistenza. “Ma questo ancora come si può comprendere? Che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa?”[57]. L’infelicità non è un accidente ma una diretta conseguenza dell’amor proprio, però senza di esso l’esistenza non sarebbe concepibile[58]. D’altra parte non esiste solo questa contraddizione essenziale. “Del resto e in generale è certissimo che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille generi e di mille quantità, non delle apparenti, ma delle dimostrate con tutti i lumi e l’esattezza la più geometrica della metafisica e della logica; e tanto evidenti per noi quanto lo è la verità della proposizione Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunciare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione”[59]. Nell’ultima riga viene prospettato un naufragio della ragione. Il 3 giugno Leopardi aggiunge un rinvio alla contraddizione descritta a p. 4087 e al Dialogo della natura e di un islandese.

   In un brano scritto tra il 5-6 aprile 1825 Leopardi fa una sottilissima distinzione tra il fine naturale di ogni essere vivente e il fine della sua esistenza. Il primo è senza dubbio la felicità, ma l’altro la esclude perché, nel corso della vita i dispiaceri prevalgono di gran lunga sui piaceri. “Dunque la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere né la felicità degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura p. necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna specie presa insieme, e così la dei viventi. Contraddizione evidente e innegabile nell’ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse[60]. Poi è Leopardi stesso a rimandare al pensiero del 2 giugno 1824.

   Solo gli animali sono sensibili e solo essi sono infelici e per essi la non esistenza sarebbe da preferire all’esistenza. La sensibilità diviene il parametro per misurare l’infelicità. “La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario”[61]. Il loro danno si rivela  utile all’universo, in quanto perpetuano la sua esistenza. “Quindi questa loro necessità è un’imperfezione della natura, e dell’ordine universale, imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale”[62]. Ma subito Leopardi si corregge. Se gli animali sono una parte insignificante della natura (che, per lo più, è insensibile), la loro sofferenza non merita d’essere chiamata imperfezione nell’ordine universale. Non sarebbe da escludere che gli esseri sensibili ne costituiscano la parte più infima.

   “L’uomo tende ad un fine principale e unico”[63]: la felicità. Però “il fine dell’uomo, il sommo suo bene, la sua felicità non esistono”[64]. Al termine del pensiero Leopardi si affida a una sottile distinzione. “Il fine della natura dell’uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine cercato dalla natura dell’uomo. Questo fine non esiste in natura, e non può esistere per natura”[65]. E’ facile scorgere l’antitesi nell’ossessivo ripetersi del termine natura.

   Nel famoso frammento del 22 aprile 1826, in cui si dimostra che “tutto è male”, si torna ad insistere sul fatto che “l’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità”[66], ma non viene dimenticata la limitatezza del giudizio umano: “L’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica”[67].

   In una riflessione del 13 luglio 1826 Leopardi si difende da una possibile accusa di contraddizione insita nel suo pensiero. “Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l’inazione e l’infingardaggine dei selvaggi”[68]. Riconoscendo che l’infelicità è tanto maggiore quanto più grande è il desiderio di felicità, se ne deve dedurre che le condizioni in cui l’animo è meno sviluppato e quindi meno sensibile sono le meno infelici. Pertanto è da preferirsi lo stato dei selvaggi. Ma gli individui dei paesi civilizzati hanno raggiunto un animo talmente sviluppato, che non è più possibile ricondurli allo stato primitivo. Rimane un unico rimedio: la distrazione, che consiste nel maggior grado di attività.

   Una classica dimostrazione della provvidenzialità  dell’universo viene rovesciata. Dai beni si è soliti dedurre l’esistenza di un creatore buono e intelligente, mentre i mali sono considerati misteri che la nostra limitata intelligenza non può districare. Ma allora perché non si considerano anche i beni misteri che non possiamo comprendere[69]?

   L’argomentazione viene ripresa in una nota del 21 marzo 1827. “Lodasi senza fine il gran magisterio della natura, l’ordine incomparabile dell’universo”[70]. Eppure quest’universo presenta almeno tanti mali quanti beni, benché Leopardi sia convinto che siano i mali a prevalere di gran lunga. “Ma il male par male a noi, non è veramente”[71]. Perché allora il bene dovrebbe essere davvero bene per noi e non soltanto una parvenza? “Se noi non possiamo giudicare dei fini… astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo”[72]. Tuttavia, dopo la professione di epochè, si ribadisce che l’universo è cattivo per tutte le creature che conosciamo. Già l’8 ottobre 1825 aveva confutato le argomentazioni di chi vuol provare l’esistenza di Dio dalla perfezione del mondo, sottolineando l’abisso che separa un intelletto finito da uno infinito. Presupponendo l’infinità del cosmo se ne deduce l’esistenza di un creatore buono e infinito. Ma nel nostro universo non si può riconoscere niente d’infinito anche tralasciando “le innumerabili imperfezioni che si ravvisano, non pur fisicamente, ma metafisicamen. e logicam. parlando, nell’universo”[73]. D’altra parte per fare il mondo non è necessaria una potenza infinita, ma solo una potenza superiore a quella umana.  Si deve pertanto concludere che “niuno artifizio insomma è nella natura, perché la natura stessa è cagione che le cose vadan bene essendo ordinate in tal modo piuttosto che in un altro, e questo modo non è necessario assolutamente all’andar bene, ma solo relativamente al tale e non altrimenti essere della natura, la quale se altrimenti fosse, le cose non andrebbero bene, non potrebbero conservarsi ec., se non con altro modo ec.”[74].

   Il 25 settembre 1826 si ritorna a insistere sulle “contraddizioni innumerabili, evidenti e continue [che] si trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente, ma anche materialmente”[75]. Perché la natura ha dato nello stesso tempo ad alcuni animali le armi per assalirne altri e a questi ultimi i mezzi per difendersi dai loro assalti?  “L’enumerazione di tali e analoghe contrarietà si estenderebbe in infinito, ed abbraccierebbe ciascun regno, ciascuno elemento, e tutto il sistema della natura”[76]. I “fini” della natura cominciano a essere derisi. “Qual è il fine, qual è il voler sincero e l’intenzione vera della natura? Vuol ella che il tal frutto sia mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì, perché l’ha difeso con sì dura crosta e con tanta cura? se no, perché ha dato ai tali animali l’istinto e l’appetito e forse anche il bisogno di procacciarlo e mangiarselo?”[77]. La critica ora è diretta contro il teleologismo delle scienze naturali. “I naturalisti ammirano la immensa sagacità ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie animale o vegetabile o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque sia genere. Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste tali offese?”[78].

   Nel procedere della sua meditazione Leopardi arriva ad asserire che la materia è in grado di pensare. Non basta a dubitarne il fatto che non riusciamo a comprendere come lo faccia. Il nostro organismo è un corpo pensante. Però si dà per scontato che la materia non possa pensare. Si è partiti da questo assioma per dimostrare l’esistenza dello spirito. “Sarebbe infinito il rilevare tutte le assurdità e i ragionamenti le contraddizioni al nostro medesimo usato metodo e andamento di discorrere che si sono dovuti fare per ragionare sopra questa supposta sostanza, e per arrivare alla conclusione della sua esistenza”[79].

   Nel suo “Indice del mio Zibaldone di pensieri cominciato agli undici di Luglio del 1827 in Firenze” Leopardi non si dimentica delle sue riflessioni sulla “contraddizione”. Tale soggetto viene suddiviso in tre lemmi[80]: “Contraddizioni e mostruosità evidenti e orribili nel sistema della Natura e della esistenza”, richiamandosi alle pagine 4099, 4127, 4133, 4169, 4174, 4188, 4248, 4257; “Contraddizioni ridicole in esso sistema”, citando la pagina 4204; “Contraddizioni necessarie e inevitabili nel sistema della vita civilizzata”, menzionando le pagine 2337, 2454, 2686, 3773. Sotto il lemma “Tutto è male”[81] rimanda alle pagine 4174 e 4257, aggiungendo “Vedi Contraddizioni e mostruosità ec. Artifizio ec.”.  Alla voce “Sistema della Natura”[82] rimanda a “Artifizio. Contraddizioni e mostruosità. Semplicità. Moltiplicità  ec.”. Al lemma “Artifizio della Natura nell’universo, se sia veramente ammirabile”[83] sono citate le pagine 4142, 4204, 4248, 4257 (le ultime tre richiamate anche  sotto “Contraddizioni e mostruosità… ecc.).

   L’indice dimostra il fitto legame che, nel pensiero leopardiano, intercorre tra il concetto di “contraddizione” e quello di “sistema”. Il sistema costituisce il complesso bene ordinato a cui la contraddizione reca disordine, destituendolo di qualsiasi  valore. Quest’ultima, in un primo periodo, viene utilizzata al fine di dimostrare, per assurdo, la bontà della natura. In un secondo momento sarà la natura stessa ad essere accusata come contraddittoria e malvagia. Va notato che Leopardi cita i passi, a partire dal 3 giugno 1824 (p. 4099 e sgg.), dove la natura è posta sul banco degli imputati, e i passi (2337 e sgg.) dove è la società ad essere bollata come contraddittoria ed estranea ai disegni della natura, ma non menziona mai luoghi anteriori all’8 gennaio 1822, quando la natura è dichiarata del tutto esente da contraddizioni. Si tratta, in un primo tempo, di una difesa disperata, in cui la contraddizione viene utilizzata come un’arma estrema per fugare i dubbi, che sempre più si addensano, sull’operato della natura. Finché la contraddizione viene negata la natura può essere considerata madre benigna del tutto, nel momento in cui viene ammessa la natura diviene la crudele matrigna. La prima contraddizione ad essere concessa è quella insita nel tessuto sociale. Qui la natura può essere ancora difesa dimostrando che la società stretta è innaturale per l’uomo. Ma il passo successivo conduce inevitabilmente all’atto d’accusa contro la natura.



[1] Zib. 18 (Ago. 1817-Dic.1818)

[2] Il problema verrà ripreso, con la ripetizione dei medesimi termini, tranne quello di “contraddizione”, a p.44.

[3] E. SEVERINO, Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 1997, p 365. Cfr. anche la nota di Zib.  51: “Può mai stare che il non esistere sia assolutamente meglio ad un essere che l’esistere? Ora così accadrebbe appunto all’uomo senza vita futura”.

[4] Zib. 66.

[5] Zib. 182  (12-23 luglio 1820).

[6] Zib. 328 (14 novembre 1820). Da notare come il termine “contraddizione” sia affiancato a “sistema” allo stesso modo del pensiero di p. 18.

[7] Ibid.

[8] Zib. 341.

[9] Ibid. In questo passo sono da notare: il ripetersi del termine “contraddizioni” nel breve spazio di una pagina; il ripetersi, ad ogni sua occorrenza, del termine “sistema” (cfr. Zib. 18 ; 328; 364); l’insistenza sul ruolo privilegiato dell’uomo nella gerarchia degli esseri.

[10] Zib. 452 (22 dicembre 1820).

[11] Zib. 364  (29 novembre-1 dicembre 1820). Per la compresenza  di “sistema” e “contraddittorio” si veda la n. 8.

[12] Zib. 364-365.

[13] Zib. 366.

[14] Zib. 573 (22-29 gennaio 1821).

[15] Zib. 587 (29-31 gennaio 1821).

[16] Zib. 1173 (16 giugno 1821).

[17] Ibid. Il corsivo e il maiuscolo sono dell’autore.

[18] Zib. 1555 (24 agosto 1821).

[19] Zib. 1562 (25 agosto 1821). Da notare una nuova di “contraddizione” e “sistema”: cfr. n. 3.

[20] Zib. 1595 (31 agosto 1821).

[21] Zib. 1596 .

[22] Ibid. (il corsivo è di Leopardi).

[23] Zib.  1597  (L’asserzione inizia un lungo pensiero del 31 agosto-1 settembre 1821 dove il termine “contraddizione” compare più di una volta”). L’affermazione era già stata pronunciata a p. 375 (2-3 dicembre 1820): “nella natura non si trovano contraddizioni” e sarà ripetuta a p. 1527.

[24] Ibid.

[25] Zib. 1598.

[26] Zib. 1627 (4 settembre 1821).

[27] Ibid.

[28] E. SEVERINO, Cosa arcana e stupenda…, cit., p.254.

[29] Zib. 1854 (5-6 ottobre 1821).

[30] Zib. 1858.

[31] Zib. 1859.

[32] Zib. 2074 (8 novembre 1821). Da collegare con il pensiero di p. 1627 dove si discuteva dei misteri della religione.

[33] Zib. 2114-2115 (18 novembre  1821).

[34] Zib. 2115-2116. Da notare il ripetersi , nel giro di poche righe, di alcuni termini fondamentali della riflessione leopardiana: contraddizione, contraddittorii e sistema.

[35] Zib. 2338 ( 8 gennaio 1822).

[36] Risale al 16 febbraio 1822.

[37] Zib. 2454.

[38] Zib. 2685. (1 aprile 1823).

[39] Zib. 2499 (26 giugno 1822).

[40] Zib. 2382-83 (2 febbraio 1822).

[41] Zib. 2384.

[42] Zib. 3774.

[43] Zib. 3776.

[44] In questo periodo l’uomo continua ad avere il primo posto nella gerarchia degli enti.

[45] Leopardi si riferisce al pensiero di p. 2499, esaminato sopra.

[46] Zib. 3788. Il corsivo è dell’autore.

[47] Ibid.

[48] Cfr. Zib. 3809: “Nella società l’uomo perde quanto è possibile l’impronta della natura”.

[49] Cfr. Zib. 3809-10: “La società rende gli uomini, non pur diversi e disuguali tra loro, quali essi sono in natura, ma dissimili. Onde anche p. questo argomento si conchiude che l’essenza e natura della società, massime umana, contiene contraddizione in se stessa; perocchè la società umana naturalmente distrugge il più necessario elemento, mezzo, nodo, vincolo della società, ch’è l’uguaglianza e parità scambievole degl’individui  che l’hanno a comporre”.

[50] Zib. 3883 (14 novembre 1823). Sul principio fondamentale dell’esistenza cfr. Zib. 181-2 e 3813-14.

[51] Zib. 3929 (27 novembre 1823). Vedi anche la nota precedente.

[52] Zib. 3930.

[53] Zib. 4087.

[54] Zib. 4099 (2 giugno 1824).

[55] Ibid.

[56] Zib. 4099-100.

[57] Zib. 4100.

[58] Sulle conseguenze dell’amor proprio Leopardi s’era già soffermato alle pagine 2493-95 (24 giugno 1822), però in questo passo la natura viene “scusata” dal momento che si tratta di un inconveniente inevitabile  e diretto a fin di bene.

[59] Zib. 4100.

[60] Zib. 4129. I corsivi sono di Leopardi.

[61] Zib. 4133 (9 aprile 1825).

[62] Ibid.

[63] Zib. 4168 (11 marzo 1826).

[64] Ibid.

[65] Zib. 4168-69.

[66] Zib. 4174.

[67] Ibid.

[68] Zib. 4185. Si noti, ancora una volta, la vicinanza di “contraddizione” e “sistema”.

[69] Zib. 4248. (18 febbraio 1827).

[70] Zib. 4257.

[71] Zib. 4258.

[72] Ibid.

[73] Zib. 4142.

[74] Zib. 4143.

[75] Zib. 4204.

[76] Ibid.

[77] Zib. 4204-05.

[78] Zib. 4205. Cfr., per contrasto, una nota dell’8 luglio 1820 [p. 159] dove si parla di “un finiss. magistero della natura” che ha fatto sì che gli uccelli volassero perché il loro canto si propagasse meglio; o un’altra del 31 luglio 1820 [p. 193]: “Gran magistero della natura fu quello d’interrompere, per modo di dire, la vita col sonno”.

[79] Zib. 4253 (9 marzo 1827). Da collegare a p. 2074 in cui si discute della materialità come uno degli attributi di Dio.

[80] Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri. Edizione critica e annotata a cura di Giuseppe Pacella, Milano, Garzanti, 1991, v. 3, p. 1181.

[81]  Idem, p.1205.

[82] Idem, p. 1195.

[83] Idem., p.1177.

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